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Porti senza navi e zone franche inattive. Intanto, puf!, la continuità aerea se ne va

Posted on 24 Aprile 201924 Aprile 2019 By Paolo Maninchedda

Recentemente è stato pubblicato un articolo molto interessante di Alessandro Panaro, Capo Dipartimento “Economia Marittima”, SRM (Gruppo Intesa Sanpaolo), sull’utilità delle Zone economiche Speciali per lo sviluppo dei porti e delle regioni mediterranee. Ovviamente in Sardegna se ne parla poco, perché si è ancora alla determinazione dei pesi delle diverse forze politiche alla luce dell’unita di misura della qualità media degli uomini di governo determinata dalla campagna elettorale salviniana. Nel frattempo, cioè mentre ci si è inginocchiati dinanzi all’Unione Europea anziché portarla in giudizio sulla continuità territoriale aerea, mentre si è varata la storica continuità aerea a due teste e due tariffe, mentre cioè si sta perdendo la continuità aerea nel quadro di una politica distratta e anestetizzata dall’ignoranza, sta anche accadendo che la Sardegna sta diventando sempre più marginale nei traffici marittimi. È stato pubblicato uno studio che sollecita qualche riflessione, a partire dal ruolo attrattivo delle Zone Economiche speciali per i porti mediterranei.
In primo luogo occorre prendere dimestichezza con un’espressione: Belt and road initiative. I giornali italiani, pigri come sempre, la hanno tradotta seguendo pedissequamente le indicazione sul suo contenuto fornite dal governo cinese, il quale la spiega come forma ridotta della più ampia espressione the Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road, cioè, letteralmente, Il percorso economico e marittimo della via della seta nel 21 secolo. In poche parole, i Cinesi stanno investendo nei porti europei. Quali?
L’articolo citato in apertura mostra che dal 2012 ad oggi “la presenza di navi nel Mare Nostrum è aumentata del 24% (27% se consideriamo solo le megaship, cioè quelle con capacità maggiore di 13.000 TEU). Inoltre, il Canale di Suez ha registrato nel 2017 crescite record, chiudendo l’anno con oltre 900 milioni di tonnellate e 17.550 navi transitate (+11% sul 2016). Infine, negli ultimi vent’anni il traffico container è cresciuto di sei volte, oltrepassando la soglia dei 50 milioni di TEU”.

Se il traffico marittimo aumenta, quanto di esso si svolge attraverso i porti della Repubblica italiana? Vediamo dove vanno gli investimenti cinesi: “in poco più di due anni Pechino ha investito oltre 3 miliardi di euro in otto porti (Haifa, Ashdod, Ambarli, Pireo, Rotterdam, Vado Ligure, Bilbao e Valencia)”. Un solo porto su otto è italiano; nessun porto sardo è stato contemplato né appare contemplabile per alcun investitore.
Quali sono le condizioni affinché un porto mediterraneo sia vantaggioso e produca sviluppo?
“Soltanto recentemente si è giunti a regolare la presenza di Zone Economiche Speciali (ZES) nelle aree portuali [italiane, ma non sarde], creando i presupposti per istituire aree a sviluppo incentivato dal punto di vista del costo del lavoro e di quello fiscale, doganale, e soprattutto burocratico. Si tratta di una idea condivisibile in quanto per attirare imprese export e import oriented occorre un’infrastruttura marittima efficiente ed efficace. Ad oggi sono stati fatti passi importanti, ma manca ancora lo scatto decisivo poiché al credito di imposta – attualmente previsto per le imprese che investono – dovrebbero poi essere affiancati gli incentivi burocratico e doganali, che rappresentano l’humus per ‘nutrire’ l’imprenditore che lavora e commercia con l’estero”.

L’Italia è arrivata, sonnecchiante e con molto ritardo a istituire le Zes nei porti; viceversa l’Africa è attivissima. La Sardegna è moribonda: per averne un’idea si dia uno sguardo al volume dei traffici dei porti italiani.
Gli altri porti?
“Tanger Med ha per esempio una ZES che produce 6 miliardi di export l’anno. 600 imprese nei settori dell’automotive, dell’agroalimentare e del tessile, operano al suo interno e possono beneficiare, oltre che di un grande porto internazionale dove sono presenti multinazionali del calibro di Eurogate e APM, anche di una serie di incentivi fiscali (come l’esenzione totale delle imposte per i primi cinque anni dall’insediamento). Non solo: con il Fondo Hassan II il Governo marocchino sovvenziona l’acquisizione da parte delle imprese di strutture immobiliari strumentali (come terreni e fabbricati relativi). L’investimento principe è stato quello della Renault ma l’elenco delle imprese è molto lungo e diversificato”.
“Altro esempio è quello di Port Said in Egitto, situato allo sbocco del Canale di Suez. La Suez Canal Economic Zone (SCZone) coinvolge quattro porti, due aree integrate e due aree di sviluppo tematico e concede anche forti incentivi doganali oltre che fiscali e burocratici. Certo, i modelli egiziani e marocchini sono poco replicabili da noi, avendo questi Paesi una normativa più flessibile, minori costi del lavoro e sterminati spazi retroportuali”.
E le nostre ‘zone franche’?
Un piccolo e banale controllo alla Camera di Commercio rivela che la Zona Franca Di Cagliari- Società Consortile S.P.A. “Cagliari Free Zone” è inattiva, benché formalmente esistente da 19 anni. La Zona Franca portuale, anche realizzata, non avrebbe gli stessi poteri e opportunità delle Zes, perché siamo in Italia. Ma la cosa più interessante è il Piano strategico 2017-2020 della società di gestione del Porto Canale che ha in mano una concessione ventennale, valida fino al 2027, insistente su circa 40 ettari, a fronte di una valutazione molto prudente dell’andamento del mercato e delle minacce derivanti proprio dall’appetibilità degli altri porti, dichiarava – di fronte anche ai rappresentanti del Cacip che non hanno battuto ciglio, che si stimava per il 2018 la stessa movimentazione del 2016, cioè 675.000. Questo valore nel 2018 è sceso del 70%, confermando che le previsioni erano illogiche rispetto alle premesse.
Quale è l’impatto di una zona portuaLe di vantaggio fiscale?
“L’impatto economico di queste aree può essere misurato da vari indicatori. Da elaborazioni effettuate su un panel di ZES mondiali è emerso che una volta a regime – cioè in un arco temporale tra i sette e i dieci anni – queste zone potranno arrivare a incrementare le esportazioni di un territorio fino al 40%. Se applicassimo questa performance di crescita agli attuali volumi di export del nostro Mezzogiorno, nell’arco di un decennio si potrebbe attivare export aggiuntivo pari a circa 18 miliardi di euro.
Un altro indicatore rilevante è il traffico container, che – dati SRM alla mano – nei porti del Mediterraneo dotati di ZES è cresciuto a ritmi esponenziali: +8,4% negli ultimi dieci anni, contro un ben più modesto +1% fatto registrate dagli scali italiani. Anche in questo caso, se applicassimo tale percentuale di incremento ai porti meridionali, che attualmente movimentano il 40% del traffico container italiano (circa 4 milioni di TEU), in dieci anni potremmo aumentare il volume fino ad arrivare a 7,4 milioni di TEU. A questo incremento si assommerebbero anche i conseguenti impatti positivi relativi all’eventuale lavorazione logistica a valore aggiunto”.
Ecco, mi chiedevo, quanti potenziali assessori ai trasporti hanno consapevolezza di questi problemi? Quanti consiglieri regionali hanno coscienza dell’adeguatezza del loro sapere all’importanza del loro potere?

Politica, Trasporti

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