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Perché è sbagliata la crociata contro l’art. 18? Perché siamo in Italia (e in Sardegna).
La crisi morale del capitalismo rapace

Posted on 23 Novembre 201423 Novembre 2014 By Paolo Maninchedda 4 commenti su Perché è sbagliata la crociata contro l’art. 18? Perché siamo in Italia (e in Sardegna).
La crisi morale del capitalismo rapace

capitalismodi Gianni Benevole
L’impresa Dnulkestef, secondo la regola della pianificazione tempestiva del fabbisogno della manodopera (man power planning), ha programmato di sciogliere il rapporto di lavoro con Kerienia, quarantacinquenne, tecnico informatico, nel quadro di un progetto di ristrutturazione. Il direttore chiama la dipendente nel suo ufficio per spiegarle la situazione, la informa che, tenuto conto della sua anzianità di servizio, le verranno corrisposti in ogni caso diciotto mesi di retribuzioni, a partire da quel giorno e che sarà lei stessa a decidere quando far cessare il rapporto di lavoro, entro i successivi nove mesi. Le viene offerto inoltre un servizio intensivo di riqualificazione e di ricollocazione (outplacement) e nel peggiore dei casi avrà diritto ad una indennità di disoccupazione pari al 90 per cento della retribuzione, poi a scalare per i successivi due anni. Nel giro di tre mesi la dipendente viene invitata ad un corso di formazione per diventare docente di un centro di alfabetizzazione informatica delle persone anziane. Lei accetta, riscuote la parte restante dell’indennizzo dovuto dal suo datore di lavoro e dallo stesso reso immediatamente disponibile, frequenta il corso e sei mesi dopo è già assunta e impiegata nel suo nuovo lavoro. La storia si è svolta in Danimarca, dove non vige l’art. 18, ma un sistema di tutele reali del lavoratore che perde il lavoro e della sua famiglia. Della questione non si è occupato alcun avvocato, né alcun giudice o politico di turno. I meccanismi del ricollocamento e della formazione seria e continua (non quella da mangiatoia) funzionano e le risorse umane sono realmente degne di tale nome.

In Italia siamo lontani anni luce da tutto questo, ecco perché eliminare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori o comunque modificarlo nei termini proposti e di cui si legge, equivarrebbe, specie nell’ambito delle grosse aziende, a lanciarsi da un aereo senza paracadute.  Non sarebbe in ogni caso sufficiente, e non lo è mai stata, la tutela prevista dalle norme sui licenziamenti discriminatori o ritorsivi, visti i gravosi oneri di prova a carico del lavoratore e le facili contromisure giuridiche che lo stesso ordinamento riconosce al datore di lavoro.

Storie di casa nostra ben differenti da quella ambientata in Danimarca.

Pino lavora con grande spirito di abnegazione per una società a responsabilità limitata. Da gennaio, non riceve lo stipendio, continua a lavorare per quasi un anno, a gratis, per tenere stretto a se il posto di lavoro. Dopo circa un anno, non potendo più permettersi di andare a lavoro senza ricevere lo stipendio, decide di dimettersi per giusta causa. Nel frattempo chiede al suo datore di lavoro il pagamento degli stipendi arretrati e il pagamento del trattamento di fine rapporto. Scopre, tuttavia, che la società versa in uno stato di sostanziale insolvenza e che il suo amministratore ricopre contemporaneamente la stessa carica in altre cinque società, tutte società a responsabilità limitata, nella medesima situazione economico-finanziaria della prima. Esposizione smisurata verso dipendenti, verso i creditori e verso il fisco. Non solo, l’amministratore delle citate società ricopre importanti ruoli e cariche pubbliche. Ma non è tutto. Dalle verifiche ulteriori è emerso, documenti alla mano, che l’amministratore delle società è stato cancellato dal registro della popolazione per irreperibilità. Non ha risposto al censimento e si è sottratto alle verifiche di rito. Irreperibile per lo Stato Italiano. Tuttavia continua a ricoprire cariche pubbliche di prestigio e a partecipare ai talk-show in tv, mentre  i dipendenti delle società sono a casa senza soldi e senza lavoro.  Pino, solo grazie a una mossa fortunosa,  è riuscito a pignorare e a far vendere un immobile intestato alla società e a recuperare gran parte dei suoi soldi. Il resto andrà ad incrementare l’enorme debito gravante su fondo di garanzia dell’Inps che interviene in questi casi e costituisce anch’esso una consistente fetta di debito pubblico.

Altra storia. La nuova proprietà, appena insediata, di una grossa azienda locale, licenzia, senza alcun riguardo,  le figure storiche, impiegate alle dipendenze della stessa per oltre 15 anni con grande esperienza e elevato bagaglio professionale.  Riorganizzazione aziendale, testualmente recita la lettera di licenziamento.  La società offre ai dipendenti dalle due alle quattro mensilità a titolo di incentivo per la risoluzione del rapporto di lavoro e dice loro che provvederà a corrispondere il TFR, se e quando lo riterrà, in venti mesi. Nel frattempo l’amministratore della società trascorre le vacanze nel suo Yacth e i dipendenti, per avere subito tutti i loro soldi, lavorati in oltre 15 anni, sono costretti a far pignorare i conti correnti della società.

Altra storia, Ambra ha un curriculum di alto profilo, conosce quattro lingue e vanta importanti esperienze lavorative pregresse ad alto livello nel settore finanziario e commerciale. Partecipa a una selezione e viene assunta da una multinazionale che le prospetta ottime possibilità di carriera e un percorso lavorativo appagante. Con enormi sacrifici, ma con grandissimo entusiasmo, trasferisce la residenza della sua famiglia in Sardegna. Contrariamente alle aspettative viene tuttavia assegnata unicamente alle operazioni di rifornimento dei banchi e adibita alla conta dei colli di merce. Sullo scadere dei primi tre mesi viene convocata in ufficio dal direttore che le comunica di dover procedere con il suo licenziamento per mancato superamento del periodo di prova.

Altra vicenda riguarda Alessio, per tanti anni responsabile qualificato del settore di punta dell’azienda. Viene improvvisamente licenziato per riorganizzazione aziendale. In realtà Alessio è un dipendente scomodo. Si era infatti semplicemente permesso di richiamare l’amministratore della società ad un maggiore rispetto delle regole, in merito allo svolgimento del servizio reso dall’azienda per cui lavora, nei confronti di un ente pubblico, invitandolo ad essere corretto e trasparente.

A prescindere dalla facile demagogia e dalle astratte dichiarazioni di principio della politica, le vicende narrate danno atto del fatto che l’unica vera crisi riguarda, principalmente, i valori morali di un capitalismo senza idee, del tutto incapace di realizzare programmi di investimento, cultura dell’innovazione e politiche di valorizzazione delle risorse umane, ma unicamente pronto ad acciuffare dividendi e ricchezza.

 

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Comments (4) on “Perché è sbagliata la crociata contro l’art. 18? Perché siamo in Italia (e in Sardegna).
La crisi morale del capitalismo rapace”

  1. Gianni Benevole ha detto:
    24 Novembre 2014 alle 21:31

    Condivido la tua osservazione, Antonello, nessuna generalizzazione. Intendevo riferirmi unicamente a quel capitalismo nello specifico circoscritto con gli esempi concreti e reali richiamati. Potrei ulteriormente proseguire, volendo, con la casistica. Per fortuna non mancano gli esempi virtuosi, che, per la mia modesta esperienza, riconduco prevalentemente alle imprese che quotidianamente fanno enormi sacrifici per stare onestamente sul mercato e, spesso, sono tuttavia costrette ad abbassare la serranda. È sufficiente percorrere il Corso di Nuoro, di Macomer, di Oristano, la Via Manno e Garibaldi di Cagliari per toccare con mano. Ancora è risaputo che nei contesti lavorativi, anche qui parlo per esperienza, ci sono sempre le colonne portanti che reggono il sistema e compensano inefficienza, assenteismo e mancanza di zelo. Personalmente ho una segretaria che, a 25 anni, si è cercata il lavoro da sola, inviando un curriculum in studio e non è mai mancata un solo giorno dal lavoro.

  2. Maria Cristina ha detto:
    23 Novembre 2014 alle 18:42

    Gianni, forse non è neppure capitalismo né tantomeno imprenditorialità, ma bieco opportunismo strabico e miope.. alla fine senza le risorse umane qualificate che rimane dell’azienda? Il capitalismo prevedeva il rischio d’azienda a carico dell’imprenditore, qui è lo stato che cerca di far da paracadute a tutti e così non tutela nessuno!

  3. Enrico Cadeddu ha detto:
    23 Novembre 2014 alle 16:30

    Gianni, analisi sempre lucide quanto impietose.

  4. Antonello Loriga ha detto:
    23 Novembre 2014 alle 10:58

    Premesso che l”intervento centra perfettamente il punto nevralgico del “problema lavoro” mi permetto di commentare solo l’ultimo comma, forse un troppo generalista.
    Leggendo soprattutto l’esperienza della dipendente danese, l’ultimo comma lo si potrebbe scrivere anche così :
    “A prescindere dalla facile demagogia e dalle astratte dichiarazioni della politica, le vicende narrate danno atto del fatto che l’unica vera crisi riguarda, principalmente, i valori morali di un mondo del lavoro pubblico/privato senza idee,del tutto incapace di realizzare programmi di investimento, cultura dell’innovazione e politiche di valorizzazione delle risorse umane, ma unicamente pronto a tutelare esclusivamente il posto di lavoro, possibilmente a vita.”
    Non penso che tutto il capitalismo non abbia valori morali come non penso che tutto il mondo del lavoro sia composto da fannulloni.

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