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Il buco nero della giustizia italiana e sarda

Posted on 20 Marzo 201920 Marzo 2019 By Paolo Maninchedda

Di mestiere faccio il filologo. Cerco testi, fonti. Il nostro progenitore fu il Tommaso che volle mettere il dito nelle ferite di Gesù.
Uno dei poteri più forti della Repubblica italiana, la Giustizia, è insondabile rispetto alla sua verità. Non è possibile studiarla. I suoi atti sono protetti da una cortina di polvere e di burocrazia, di arretratezza voluta e praticata per rendere impenetrabile ad uno studio filologico i suoi atti.
Provate a cercare le sentenze in rete. Zero. Impossibile trovarle.
Provate a cercare gli atti della Commissione disciplinare del Csm. Zero.
Provate a vedere quanto siano trasparenti i curricula dei magistrati.
Nel curriculum del sindaco di Napoli, per esempio, non c’è che iscrisse il premier Romano Prodi nel registro degli indagati per una fantomatica loggia massonica costituita a San Marino, ipotizzata per il fraintendimento di una telefonata.
Se un cittadino svolge una funzione pubblica, per esempio, come è capitato a me di fare l’assessore regionale, tutto di lui diviene pubblico, titoli, proprietà, reddito. Di un magistrato no.
Ma il dato più clamoroso è l’assenza di archiviazione digitale degli atti, che consentirebbe, con tutte le cautele del caso sulla privacy dei cittadini, di verificare comparativamente i presupposti e gli svolgimenti dei processi. Zero.
Ci sono processi, anche in Sardegna, che vanno avanti più o meno da quindici anni, con alternanza di assoluzioni e condanne per gli stessi reati, per i quali non è possibile un confronto sinottico delle assoluzioni e delle condanne, delle valutazioni delle prove addotte, in alcuni casi giudicate pertinenti e in altre rifiutate. Zero.
Ci sono processi in corso, anche in Sardegna, iniziati con grandissimo clamore e poi inabissatisi  nell’oblio giudiziario ma non in quello mediatico. Perché?
Ci sono assoluzioni seriali che non mettono in discussione mai i metodi di indagine. Faccio qualche esempio su Oristano.
Il 1 febbraio 2019 sono stati assolti con formula piena l’ex sindaco di Bosa e la commissione di collaudo per i lavori della diga di regolazione della foce del Temo. La pena del processo è durata sei anni. I titoli dell’apertura indagini parlavano di danni per il Comune di Bosa per quindici milioni di euro.
Il 14 marzo 2019 sono stati assolti “perché il fatto non sussiste” i due assessori di San Vero Milis che nel lontano 2013 vennero accusati di abuso d’ufficio per non essersi astenuti dal votare il Puc del paese. La pena del processo è durata sei anni.
Il 15 febbraio 2018 è stato assolto “perché il fatto non sussiste” il segretario comunale di Oristano Luigi Mele dall’accusa di abuso di ufficio e falso.
In termini banalmente conoscitivi eventi come questi dovrebbero indurre a fare degli accertamenti statistici.
Quanti sono stati gli amministratori pubblici sottoposti a indagine nell’ultimo decennio?
Quante indagini hanno accertato reati?
Quante invece si sono risolte in assoluzioni?
Quanto sono costate le indagini?
Chi le ha condotte, errando, è stato invitato, che so io, ad aggiornare i propri metodi di indagine, a cambiarli, a cambiare la squadra di Pg o che altro?
Quali metodi di indagine si sono rivelati efficienti e quali errati?
La reiterazione di metodi fallaci deve essere o no monitorata e corretta?
Perché le sentenze con le motivazioni dei giudici, con gli atti del dibattimento, non vengono pubblicate in rete in modo da essere consultabili da chiunque?
Tutte domande senza risposta che nessuno pone per paura.
Quando la Giustizia fa paura anziché suscitare conforto per l’azione di tutela che dovrebbe esercitare, allora c’è più di qualcosa che non va. Ma nessuno lo dice. Uno Stato, come quello italiano, che cinge uno dei suoi poteri più forti dell’aura della paura, è uno Stato nel quale io mi sento estraneo.

Giustizia, Politica

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