Abbiate pazienza, ho da dire un po’ di cose che i giornali non dicono.
Pigliaru e noi Oggi la vera notizia non è la rovina dell’Italia e della Sardegna sotto i colpi del governo delle demolizioni senza ricostruzioni. Questa non è più una notizia, questa è la frontiera della battaglia politica. Purtroppo Pigliaru è andato a ricordare i risultati positivi del suo governo nel posto sbagliato, cioè nella direzione provinciale del Pd di Cagliari e infatti non l’ha calcolato nessuno. Ma è vero che il grande sforzo fatto per mettere i conti in ordine, la disoccupazione giovanile ridotta di 10 punti, il più grande intervento di edilizia scolastica mai realizzato, il più importante piano di messa in sicurezza dal rischio idrogeologico mai realizzato nella storia dell’autonomia, la nuova legge sugli appalti che per la prima volta difende i fornitori e i subappaltatori e favorisce il minor impatto ambientale della scelta a favore delle imprese sarde, il più grande piano di scavi archeologici mai realizzato, il più grande piano di lotta alle perdite delle condotte idriche, il pegno rotativo per il Pecorino romano, le manutenzioni delle dighe (invecchiate di 60 anni), l’Agenzia sarda delle entrate realizzata, l’Anas sarda realizzata, il più grande piano di efficientamento energetico degli edifici pubblici mai realizzato, tutto questo e tanto altro è sotto gli occhi di tutti, ma se si va in camera mortuaria a parlarne, ovviamente nessuno ne parla e tutti fanno le condoglianze. Il più grande fallimento della Giunta Pigliaru è la riforma sanitaria e l’arrendevolezza verso i governi italiani, ma il paradosso è che a rinfacciarle questi due grandi limiti sono gli stessi che vanno a prendere ordini dal proconsole lombardo Zoffili, quelli che stanno minacciando i risparmi dei sardi, che non restituiscono gli accantonamenti, che mettono in discussione romanamente la riforma della rete ospedaliera che salva i piccoli ospedali. Il secondo grande errore di Pigliaru è stata la comunicazione: dilettantesca, prolissa, verbosa e celebrativa, cioè inutile.
Tuttavia tutto questo non è una notizia, è dolore.
La scuola distrutta La notizia è che una professoressa è stata picchiata in una scuola professionale di Vimercate, in provincia di Monza. A memoria ricordo almeno altri due episodi dello stesso tipo accaduti nel profondo nord: una professoressa picchiata a Padova e un’altra legata alla sedia ad Alessandria.
Sono un insegnante. Per quasi dieci anni ho insegnato proprio in una scuola professionale (dove ho lasciato il cuore) prima di entrare nel ruolo docente dell’università. Insegnare è uno dei mestieri più belli del mondo se si ha la vocazione a farlo. Non si tratta di introdurre i ragazzi a una professione, ma si tratta di dimostrare l’utilità del sapere per vivere da uomini liberi. Molti presidi customerizzati dal Ministero della pubblica istruzione italiana, pensano invece che la scuola sia un’azienda di servizi, che eroga prestazioni pagate dallo Stato a utenti che si immagina vogliano acquisire competenze allo stesso modo con cui si prelevano i soldi dal bancomat. E non solo. La devastazione pedagogica cui la Repubblica italiana ha sottoposto le scuole di ogni ordine e grado da circa un ventennio, ma con più impegno con la cosiddetta buona scuola di Renzi, si concretizza con la sostituzione della razionale programmazione dei contenuti da acquisire attraverso insegnanti e lezioni, con progetti di varia natura che consumano ore ma producono aria fritta.
Nella scuola della Repubblica italiana, che noi sardi subiamo per effetto transitivo dell’Unità d’Italia, non ci sono più né famiglie (il grande equivoco della politica italiana, tutti ne parlano ma nessuno ammette che sono in estinzione), presupposte come assenti e se presenti e problematiche immediatamente affidate alle cure di psicologi, assistenti sociali e quant’altro, né insegnanti, cioè uomini dotti che insegnano contemporaneamente il sapere, la sua utilità per capirsi e capire la realtà, il metodo per imparare, ricordare e saper usare.
L’insegnante è quella straordinaria figura che mette nella testa e nei cuori delle nuove generazioni il sapere di migliaia di anni di storia e che, siccome non si può né insegnare né imparare senza amare, deve necessariamente essere consapevole di rappresentare anche un modello di relazione umana, perché non occorre solo imparare le equazioni, serve anche, e molto, imparare come si può essere liberi individualmente e civili e coesi collettivamente: serve imparare i fondamentali della civiltà.
L’insegnante è un grande genitore non biologico, un padre dell’umanità, che insegna contemporaneamente la forma e il senso delle cose e che lo fa non solo con le sue parole, ma anche con il suo modo di essere, il suo modo di porsi. Non si impara da un libro, si impara da un maestro che ti insegna a usare i libri.
Bene, questa fondamentale figura per gli Stati (e soprattutto per la Sardegna) è da qualche anno la più bistrattata dalla Repubblica italiana; è marginalizzata; costretta a un percorso di guerra nel reclutamento; con cambiamenti continui delle modalità di assunzione da ogni ministro alla Pubblica istruzione che vuole lasciare un segno sulla schiena degli altri pensando di lasciarlo nella storia; inibito a ogni forma di disciplina dalla logica che gli alunni che fanno del male non fanno del male, ma commettono errori di cui non sono responsabili; inibito a valorizzare il merito, perché se boccia chi lo merita le classi non si formano e le cattedre vengono a mancare; svilito dalla logica perversa secondo cui “pago le tasse, mi devi promuovere” come se il merito si possa comprare; sottopagato per ciò che fa e costretto a invecchiare a scuola oltre ogni limite; pensionato con pensioni miserevoli non in grado di pagare neanche la retta alberghiera delle case di riposo.
Questa devastazione della figura del docente è percepita da ragazzi e genitori e siccome il male esiste (altra grande rimozione del nostro tempo) e nessuno educa più a combatterlo (in primo luogo dentro se stessi) e esistono persone che anche temporaneamente e/o momentaneamente fanno del male, come sempre è accaduto nella storia tragica dell’umanità, i primi a subirne le conseguenze sono i deboli. Oggi l’insegnante è un debole di Stato, una preda additata.
Per tutto questo una professoressa è stata presa a sediate nella sua scuola.
Per tutto questo serve una rivoluzione politica e culturale che non si affidi alla demolizione e all’odio, come fanno i due partiti di governo, Lega e Cinquestelle, seminando macerie ma non sapendo neanche di striscio come mettere il primo mattone per ricostruire. Serve una rivoluzione positiva, impegnata, ferma ma amorevole. Noi ci stiamo provando.
Soccombere A questo proposito oggi, il giornalista che ha intervistato il nostro Augusto Cherchi (che ha risposto benissimo) arriva a fare questa domanda: «Se vi alleaste con il Pd, il vostro candidato, Paolo Maninchedda, potrebbe soccombere contro Massimo Zedda». Si noti la leggera tifoseria nascosta dietro la domanda, ma soprattutto il termine bellico ‘soccombere’. Si noti l’avvenuta acquisizione della candidatura Zedda come candidatura del Pd.
Io non soccombo manco se mi ammazzano, conosco i miei numeri e non ho paura di nessuno. Chi ha fiato, cioè idee, corra, poi vediamo. Tuttavia, le regole delle Primarie impongono che si dica che cosa si vuol fare nel caso si vincano le elezioni e impongono di dirlo prima della Primarie, all’atto della candidatura. Per esempio: che si intende fare della riforma sanitaria di Pigliaru: noi la vogliamo smontare. Come si intende il rapporto con lo Stato italiano? Per noi è competitivo. Che idea si ha della riforma centralistica dello Stato proposta da Renzi? Noi siamo radicalmente contrari.
Fiato, ci vuole fiato per giocare con noi, ma noi siamo pronti a giocare con tutti, fuorché, come è noto, con razzisti e fascisti che combattiamo. Noi siamo pronti al confronto anche con i moderati del centrodestra sardo pur di costruire unità e diritto per i Sardi.
Una cosa è certa: i media non hanno capito che noi vogliamo guidare una rivoluzione, non partecipare ad un intervento di rianimazione.
Noi vogliamo cambiare tutto.
Chi viene a giocare la partita con noi, sceglie di partecipare a una rivoluzione pacifica e democratica, ma di rivoluzione vera si tratta (lo sta capendo il mondo cattolico più di altri, perché sta comprendendo il pericolo Lega), non certo di chiacchiere da salottino.
Noi non ci identifichiamo con lo Stato, come per lungo tempo hanno fatto altre forze politiche: qui sta il punto. Per noi al 90% lo Stato italiano ha torto e va cambiato.
Altro che soccombere! Noi abbiamo il dovere di vincere.