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Meglio uccisi in pubblico che avvelenati ogni giorno

Posted on 15 Novembre 201915 Novembre 2019 By Nicolao de Lacon-Gunale

Poggiato alle pietre. Gli occhi scuri, dritti e fissi, si perdevano oltre le siepi del fico d’india. La pelle annerita dal sole. Le braccia nude, avvolte nel bianco della camicia vissuta.

«Ti chiedo se la senti rassegnata? Quest’Isola malata e debole di povertà. Il suo popolo avrà mai coscienza di se stesso? La divisione invidiosa farà spazio alla forza della concordia? O si lascerà vincere dal passare del tempo, rinunciando alla fierezza dei suoi giganti pietrificati? Continuerà a farsi dominare, abbandonandosi alle voglie prepotenti di altri, per paura o per quattro denari?»

Un grande tavolo di legno, lungo e vuoto. I gomiti appoggiati, a sostenere il peso, gli anni e la barba bianca.
«Amico mio, a quello che chiedi risponde il silenzio. So che è insopportabile. Preferiresti che tutto fosse chiaro, l’inutilità di ogni tentativo di dialogo, la colonizzazione feroce, lo schiaffo dell’ingiustizia e del sopruso. Sarebbe tutto più vero. Anche questo inesorabile lento declino. La perdita di ogni destino».

Lo sguardo si fa cattivo.
«Vorrei che fosse arrivato il tempo. Se provassi, io solo, da solo, ad alzare la voce, troverebbero pure qualcuno pronto a mozzarmi la lingua. Gli assassini dell’altrui pensiero circolano, miseramente anonimi, a caccia di coraggiosi. I guerrieri per contare nel tempo hanno bisogno di crepare davanti agli occhi dei più, evitando i vicoli bui delle città, il deserto assolato delle campagne, le grotte profonde dei monti. I guerrieri hanno bisogno di morire in battaglia, soffrendo, alti e orgogliosi, in piedi. Hanno bisogno di colpi violenti, che straziano le carni. Devono inondare di sangue la loro terra, dove le ossa possano consumarsi e confondersi con la polvere.
Il tempo ci vuole. Ci vuole per la ribellione, e per odiare i cinici, i vigliacchi e i servi. Quando arriverà, il grido squarcerà la palude e travolgerà tutto, come la forza del vento di maestrale».

Preoccupato, risponde.
«Ti sono vicino. E ti dico le tue figlie hanno bisogno di te. Hanno bisogno gli amici, quelli veri, quelli antichi. Perché ti dovresti consegnare alla persecuzione, guarda l’orto, vai a potare le piante del giardino e raccogli i fiori per chi ci ha lasciato. Aggiungi la memoria alle loro tombe, aggiungi le lacrime al loro ricordo. La sera quando bevi il vino lasciati andare al sonno dei momenti belli, quando si rideva, dopo la lotta, con le ferite ancora aperte e il sapore delle battaglie giuste».

Deciso.
«Tu mi sei caro. Molto. Sai che quanto mi dici non piegherà il mio dovere, e sentirò il dolore dell’abbandono degli amici, dei miei affetti. Saranno momenti struggenti, mi piegherò su me stesso chiedendo perdono. Poi alzerò lo sguardo di accusa, e le debolezze della solitudine saranno dimenticate, faranno posto alla forza. Poi verranno armati, prima a impaurirmi, poi a minacciarmi, e infine a colpirmi. In tanti vedranno compiersi il dramma fino all’ultimo e poi lo racconteranno a chi non c’era. Lo racconteranno ai figli, e i figli ai nipoti, e i nipoti tra loro fino a quando la storia dei carnefici non sarà putrido fango, e i nipoti dei nostri nipoti non vivranno liberi.
Io non sarò con loro, e tu non sarai con me. I muscoli cedono all’età, cedono anche i pensieri, i ricordi lontani si ripresentano per farti toccare la differenza, quello che sei e tutto ciò che eri, e tutte le debolezze dei desideri mortificati. Ora sento l’odore forte del sudore che si scioglie nel sangue, si sparge e provoca il pianto, il dolore, la rabbia…»

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