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L’università che non si arrende: la conoscenza non è solo strumentale e l’anima non è dei governi

Posted on 18 Febbraio 202022 Febbraio 2020 By Paolo Maninchedda 1 commento su L’università che non si arrende: la conoscenza non è solo strumentale e l’anima non è dei governi

Questo documento è stato sottoscritto, in questi giorni, da più di duecento accademici, tra i quali me e altri colleghi di Cagliari e di Sassari. È una lettura molto utile per chi vuole capire dove sta andando il mondo nella sua drammatica subordinazione del sistema formativo al sistema produttivo. Riporto qui solo una frase e invito alla lettura del testo.

«Economics are the methods. The object is to change the soul». Riferita alle politiche della conoscenza, istruzione e ricerca (ma non soltanto), questa formula di Margaret Thatcher ben riassume il processo che ha contraddistinto gli ultimi decenni.

Il metodo economico, la penuria come condizione normale, al limite o al di sotto del limite della sopravvivenza, è visibile a tutti. Anche ben visibile, insieme a quello finanziario, è lo strangolamento burocratico. Meno visibile l’obiettivo. Il cambiamento degli animi è così profondo che non ci accorgiamo nemmeno più della distruzione compiutasi intorno e attraverso di noi: il paradosso della fine – nella “società della conoscenza” – di un mondo dedicato alle cose della conoscenza. Anche l’udito si è assuefatto a una programmatica devastazione linguistica, dove un impoverito gergo tecnico-gestionale e burocratico reitera espressioni dalla precisa valenza operativa, che però sembra essere difficile cogliere: miglioramento della qualità, eccellenza, competenza, trasparenza, prodotti della ricerca, erogazione della didattica… E autonomia, ovvero – per riprendere le parole di Thomas Piketty – l’impostura che ha avviato il processo di distruzione del modello europeo di università. Una distruzione che ha assunto come pretesto retorico alcuni mali – reali e no – della vecchia università, ma naturalmente senza porvi rimedio, perché non questo ma altro era il suo obbiettivo».

«A trenta anni appunto dall’introduzione dell’autonomia, a venti dal processo di Bologna, a dieci dalla “Legge Gelmini”, la letteratura critica su questa distruzione è sconfinata. Ricerca e insegnamento – è un fatto, eppure sembra un tabù esplicitarlo – da tempo non sono più liberi. Sottoposta a una insensata pressione che incalza a “produrre” ogni anno di più, a ogni giro (da noi VQR, ASN ecc) di più, la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che trasforma sempre più il già esiziale publish or perish in un rubbish or perish. Nello stesso tempo, è continua la pressione ad “erogare” una formazione interamente modellata sulle richieste del mondo produttivo. La modernizzazione che ha programmaticamente strappato l’università via da ogni “torre di avorio” – facendone “responsive”, “service university” – ha significato non altro che la via, la “terza via”, verso il mondo degli interessi privati. Svuotate del loro valore, istruzione e ricerca sono valutate, vale a dire “valorizzate” tramite il mercato e il quasi-mercato della valutazione, che, nella sua migliore veste istituzionale, non serve ad altro che «a favorire (…) l’effetto di controllo sociale e di sviluppo di positive logiche di mercato» (CRUI 2001).

Proprio grazie all’imporsi di queste logiche di mercato, la libertà di ricerca e di insegnamento – sebbene tutelata dall’art. 33 della Costituzione – è ridotta oramai a libertà di impresa. Il modello al quale le è richiesto sottomettersi è un regime di produzione di conoscenze utili (utili anzitutto a incrementare il profitto privato), che comanda modi tempi e luoghi di questa produzione, secondo un management autoritario che arriva ad espropriare ricercatori e studiosi della loro stessa facoltà di giudizio, ora assoggettata a criteri privi di interna giustificazione contrabbandati per oggettivi».

In questo sito (che vi suggerisco di frequentare) trovate il testo, la lista dei sottoscrittori, una breve segnalazione stampa e un primo livello di dibattito.

Politica, Università

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Comment (1) on “L’università che non si arrende: la conoscenza non è solo strumentale e l’anima non è dei governi”

  1. Mario ha detto:
    18 Febbraio 2020 alle 08:16

    Custu su disastru s’Universidade.
    Ma, proite, TOTU su restu de s’iscola – dae sa ‘educazione’/allenamentu e sa ‘istruzione’ – ite àteru est (a parte sas ‘iscusas’ definidas cun bellas peràulas) si no servítziu «verso il mondo degli interessi privati» ASSOLUTISTICI de una ‘economia’ assurda, de gherras (cun merces e cun bombas), de distrutzione de benes, de zente e de umanidade e fintzas de sa matessi Terra chi nos sustenet?!
    In manera pretzisa no solu in contrapositzione a su torracontu colletivu/pubblicu, ma a servítziu de un’iscopu de domíniu de su profitu prus artu possíbbile (a donzi e calesisiat costu) de su ‘mundhu’ privadu assolutista chi cheret una umanidade dipendhente coment’e atividade/triballu e coment’e idròvora drogada consumista, ma sempre de prus disocupada, iscaminada, alienada e sempre cundennada in parte manna a sa peus miséria.
    Inue tiat èssere su torracontu ‘privadu’ de milliones de pessones chi tenent bisonzu fintzas solu de si campare e istare in su mundhu cun d-unu mínimu reale de dignidade e de benèssere?
    Custa ‘economia’ e tzivilia est disumana e disumanizante e sa matessi pessone e capatzidades suas sunt solu merce, cosa venale, cosa de bèndhere bendindhe/comporare comporendhe, de frundhire che arga su tantu chi no li bisonzat e de isfrutare che iscraos su tantu chi li bisonzat pro unu profitu assolutista e macu chi produit disastros.

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