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La violenza tra città e campagna in Sardegna

Posted on 13 Marzo 201913 Marzo 2019 By Paolo Maninchedda

Era il 1333 e il re Alfonso IV d’Aragona scriveva a Ugone II d’Arborea chiedendogli di permettere ai sardi dell’interno di commerciare nei suoi domini, diversamente essi avrebbero continuato a saccheggiare e danneggiare le terre sarde poste sotto il suo dominio regio.
È uno dei tanti documenti di età medievale che fanno trasparire l’antichissimo e attualissimo problema della Sardegna: l’esclusione dei paesi dell’interno da potere e ricchezza. Senza i privilegi amministrativi, politici, educativi (scuole e università) e infrastrutturali concessi da re e Stati alle poche città sarde, la stessa distribuzione della popolazione sarebbe diversa.
Oggi la subordinazione, per non dire il dominio, delle città sulle campagne è asfissiante e acriticamente esercitata e subita.
È in questo quadro che la violenza si fa strada come regolatore del conflitto.
Una certa politica ha fatto il grande errore di lisciarle il pelo inizialmente per poi pensare di gestirla o reprimerla successivamente.
Errore vecchio e ripetuto.
La violenza è sempre un fallimento educativo ma è sempre più diffusa nella società sarda. Qualche giorno fa sono stato fermato in una scuola da alcuni bidelli che mi dicevano: “Professore, troppa maleducazione. Basta dire un ‘no’, precisare una regola, disciplinare un evento, che si viene presi a parolacce”. Una nazione non è tenuta insieme dai suoi apparati repressivi e dalle leggi che li sanzionano. Pensare che si possa vivere e convivere bene solo sotto la minaccia degli arresti, è pura follia. Serve cultura, ma servono soprattutto esempi, persone credibili che rappresentino modelli di vita diversi da quelli coronati dal successo sociale.
Se l’unico valore etico è la furbizia; se la qualità è deprezzata e la mediocrità esaltata; se si teorizza e pratica che far soldi o aver successo ad ogni costo è lecito purché si sia adeguatamente scaltri da non mostrare il proprio vero volto, allora non ci si deve stupire se, chi ha strumenti culturali e antropologici semplici e limitati, reagisce alla sua esclusione da un sofisticato privilegio di accapparramento della ricchezza e del potere con l’unico devastante e primitivo linguaggio che conosce.

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