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Di chi sono le nostre città? Con una postilla per i catastrofisti

Posted on 15 Aprile 201615 Aprile 2016 By Paolo Maninchedda

albero-secolaredi Paolo Maninchedda
Cagliari, Sassari e Olbia sono le uniche città (o aree) della Sardegna che hanno dinamiche urbane.
Condividono dunque i problemi delle città europee.
Il Commissario del Comune di Roma, il prefetto Gabrielli, appena insediato ha cominciato a frequentare assiduamente le periferie capitoline. Perché? Perché nelle periferie lo Stato è scappato, non c’è più. Non a caso, in quelle belghe e francesi, proprio nelle periferie, avviene il reclutamento del terrorismo jihadista.
La tendenza delle antiche città oggi comprese nei confini della Repubblica italiana è quella di tenere in ordine i luoghi storici e di trascurare i luoghi della vita quotidiana.
È un po’ la tendenza della cultura politica italiana: così come si cerca l’eroismo delle gesta contro l’eroismo della normalità e della fatica quotidiana, così si cura più il monumento del cassonetto, più la piazza della scuola, più la passeggiata della fogna.
Mi sto occupando molto di far ripartire l’edilizia residenziale pubblica, con grande fatica. Anzi, colgo l’occasione per dire che forse quando parliamo di housing sociale dobbiamo imparare dagli errori del passato. La Regione ha investito 12 milioni di euro in housing, ma sta sperimentando che giacché la legge impone regole di rendimento finanziario al fondo costituito anche con i soldi della Regione, di ‘sociale’ nell’housing sardo c’è veramente poco. Se ci si aspettava di rispondere alla domanda abitativa dei poveri, l’unica presente, si è sbagliato. Il reddito dei poveri è tale da non reggere i canoni e i rendimenti cui il fondo è obbligato. Sarebbe stato meglio spendere 12 milioni distribuendoli tra i Comuni, ma tant’è, io sono arrivato a pratica già avviata e pressoché conclusa. Tuttavia, impariamo dalle esperienze che facciamo: l’housing fatto con i Fondi non è per i poveri e noi invece dobbiamo risolvere il problema della casa ai poveri.
Le vecchie scelte degli anni Settanta e Ottanta di concentrare in quartieri popolari l’edilizia popolare ci hanno regalato oggi interi quartieri dove le nuove povertà dell’immigrazione maghrebina e slava si sono saldate con quelle sarde. Nessuno sa bene che cosa bolla in pentola in questi villaggi autonomi della sopravvivenza.
I confini di questo mondo periferico si stanno allargando al mondo della piccola borghesia che prima (quando l’Italia produceva debito e sogni di gloria) viveva florida e oggi deve prestare molta attenzione alla propria spesa. Alle aree fuori controllo si sommano le aree della paura del futuro, dell’infelicità e dell’indignazione.
Questo mix si sente se si va a piedi, se si esce dalle strade più frequentate, se si guarda in faccia la gente.
Un modo per essere inclusivi è quello di essere adeguati, di far sentire la presenza di una visione non solo sui grandi progetti, ma sull’insieme delle piccole cose che cambiano la qualità della vita. Se l’ordinarietà funziona, la straordinarietà è più apprezzata. Il contrario non funziona. Anzi, spesso la realizzazione di grandi opere simboliche in aree disagiate è solo l’avviso di sfratto per i poveri, non certo l’avvio della soluzione dei loro problemi.
Postilla: mentre i giornali recuperavano copie (e posti di lavoro, bisogna dirlo) con l’impennata di vendite legate alle inchieste giudiziarie in corso, la Regione ha mandato in gara qualcosa come 140 milioni di euro di appalti, tra Piano Sulcis e Abbanoa. Per gradire.

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