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Contro i processi in piazza e nella rete

Posted on 7 Ottobre 20147 Ottobre 2014 By Paolo Maninchedda

piranadi Antonello Soro*

Avvisi di garanzia “anticipati” dai giornali; pagine intere di intercettazioni pubblicate sulla stampa; interrogatori di indagati, a volte addirittura in stato di detenzione, divulgati in re­te senza filtri; immagini di imputa­ti in manette trasmesse in tv. I pro­cessi oggi sembrano celebrarsi più che nelle aule giudiziarie sui gior­nali e soprattutto in rete, con ef­fetti sui quali, forse, vale la pena ri­flettere. È una conquista della mo­dernità l’aver reso pubblico (e quindi non arbitrario) il processo. Ma la  non-segretezza del giudi­zio, valore essenziale della demo­crazia, non  vuol dire gogna me­diatica: è ineludibile garanzia di legalità nel “giusto processo” e non la trasposizione integra­le in rete di ogni singolo dettaglio di vita privata che sia presente negli atti giudiziari.

I rischi del processo mediati­co sono infatti tutt’altro che irrile­vanti: per i singoli e per la società tutta. Il voyeurismo, in primo luo­go, alimentato da quel giornali­smo “di trascrizione” che sfrutta strumenti d’indagine preziosissi­mi, quali le intercettazioni,  ma estremamente pervasivi, per sod­disfare la curiosità morbosa  del pubblico spesso ben oltre le esi­genze informative rispetto a fatti, essi sì, di interesse pubblico.

Riversando in rete, senza alcu­na selezione, atti investigativi nella loro integralità si mettono co­sì a nudo l’indagato e i terzi, a qualsiasi titolo coinvolti nel pro­cesso, rivelando aspetti spesso privatissimi e intimi della loro vi­ta, condanni a volte irreparabili nella vita familiare e di relazione (si pensi alla scoperta di una paternità naturale diversa da quella di­chiarata). Gran parte di queste no­tizie resta, poi, in rete tendenzial­mente per sempre, accessibile con i comuni motori di ricerca anche solo  digitando un nome. Il ri­schio, qui, è la “damnatio memo­riae”: la condanna, cioè, a vedere la propria intera esistenza ridot­ta a un dettaglio, spesso defor­mato e deformante.

Quella della “biografia ferita” è, infatti, una sottovalutata implicazione della cronaca giudiziaria on-line: che porta l’indagato poi prosciolto ad essere ricordato per sempre – “etichettato” – come col­pevole (magari anche di un reato infamante) per la diversa risonan­za che hanno le assoluzioni rispet­to alle imputazioni. «Only bad – news are good  news»: è vero an­che qui. Un arresto fa molta più notizia di un’assoluzione, per quell’esigenza –  figlia di un cer­to giustizialismo – di dare un no­me e un  volto al “nemico pubbli­co”, ancor prima che il quadro probatorio si sia cristallizzato, quasi per placare un’ansia colletti­va.

Gli effetti sono duplici e impor­tanti: per l’indagato e per la stessa giustizia (amministrata e rappre­sentata). L’indagato poi prosciolto subirà, infatti, uno  stigma peren­ne dal vedere accostato al suo no­me un’imputazione rivelatasi infondata, in violazione anche del­la presunzione d’innocenza. Di qui il diritto – sancito dal Garante oltre che dalla giurisprudenza -ad ottenere, quantomeno dagli archi­vi on-line dei giornali, un link agli sviluppi successivi della notizia, così da garantire un’informazione aggiornata e completa e, insieme, a dignità dell’interessato. Ma an­che il condannato, a distanza  di molto tempo dal fatto e in assenza di ragioni che rinnovino l’interes­se pubblico della notizia, ha dirit­to “all’oblio”: a non vedere, cioè, la complessità di una vita ridotta a quell’unica “colpa”. Di qui la possibilità di minimizzare lo stig­ma perenne della rete, richieden­do agli stessi motori di ricerca la deindicizzazione  di queste  noti­zie, pur presenti nei siti-sorgente, così coniugando memoria colletti­va e storia individuale; giudizio pubblico e diritto al reinserimento sociale.

Tutti questi “rimedi” non posso­no però sostituire l’esercizio re­sponsabile del diritto di cronaca, che nel caso della giudiziaria tocca quanto di più prezioso abbiamo, come singoli – la reputazione e la dignità – e come collettività- l’eser­cizio imparziale della funzione giurisdizionale. Le fughe di noti­zie, i dettagli della indagini pubbli­cati sui giornali in un clima spesso fortemente colpevolista rischia­no, infatti, di privare anche il  giu­dice di quella “neutralità cogniti­va” che è il presupposto della sua terzietà. La giustizia deve pre­scindere  tanto  dalla  ricerca  del consenso, quanto dall’ideologia della trasparenza, ricordava anni fa il giurista Antoine Garapon. So­prattutto da quelle che si pretende­rebbe di realizzare delocalizzando sul web la scena giudiziaria, asse­ condando logiche di audien­ce piuttosto che di legalità, che fi­niscono per degradare la giusti­zia, per di più violando  la dignità delle persone.

* Garante  per la protezione dei dati personali
L’articolo è tratto da http://www.garanteprivacy.it/

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